Le collaborazioni coordinate e continuative, organizzate dal committente nei tempi e nei luoghi, restano prestazioni di natura autonoma, ma godono di alcune garanzie tipiche dei lavoratori dipendenti, in termini di retribuzione, previdenza e orario di lavoro.
Le collaborazioni organizzate non sono quindi riqualificabili rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma sono appartenenti ad una fattispecie nuova, quella del lavoro cd. etero organizzato, qualora siano integrati i requisiti previsti dall’art. 2 del Jobs Act.
E’ questo, in sintesi, il principio di diritto che la Corte di Appello di Torino ha applicato per qualificare il rapporto di lavoro dei riders, i cosiddetti ciclofattorini.
Corte d’Appello Torino, Sezione Lavoro civile
Sentenza 4 febbraio 2019, n. 26
Integrale
Subordinazione – Lavoro autonomo – Riders – Lavoratori autonomi – Ciclofattorini
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI TORINO
SEZIONE LAVORO
Composta da:
Dott. Clotilde Fierro PRESIDENTE
Dott. Maria Gabriella Mariani CONSIGLIERE
Dott. Piero Rocchetti CONSIGLIERE Rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa di lavoro iscritta al n.ro 468 /2018 R.G.L. promossa da:
(…), rappresentati e difesi dagli avvocati (…) congiuntamente e disgiuntamente in forza di procura speciale in calce al ricorso introduttivo del primo grado di giudizio ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultima in Torino
APPELLANTI
CONTRO
(…), con sede legale in Milano, in persona del liquidatore, dott. (…), rappresentata e difesa dal prof. avv. (…), dalla prof. avv. (…) ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in Torino, come da procura allegata alla memoria di costituzione in appello
APPELLATA
Oggetto: riconoscimento rapporti di lavoro subordinato, differenze retributive, risarcimento danni.
CONCLUSIONI
Per gli appellanti: come da ricorso depositato in data 29.06.2018
Per l’appellata: come da memoria depositata in data 27.12.2018
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Gli odierni appellanti (oltre al signor (…)) avevano convenuto in giudizio, avanti al Tribunale di Torino in funzione di Giudice del lavoro, la (…) s.r.l. ((…)) deducendo di avere prestato la propria attività lavorativa a favore della convenuta con mansioni di fattorino in forza di contratti di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato prorogati fino al 30.11.2016 e chiedendo l’accertamento della costituzione tra le parti di un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con condanna della convenuta:
– alla corresponsione delle somme a loro dovute a titolo di differenze retributive dirette e indirette e competenze di fine rapporto in forza dell’inquadramento nel V livello del CCNL logistica o nel VI livello del CCNL terziario;
– al ripristino del rapporto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento (30.11.2016) a quella dell’effettiva ricostituzione, previo accertamento della nullità, inefficacia o illegittimità del licenziamento;
– al risarcimento del danno subito per la violazione da parte del datore di lavoro della normativa in materia di privacy, sia per quanto concerne l’accesso ai dati personali che per quanto concerne il controllo a distanza;
– al risarcimento del danno subito per la violazione da parte del datore di lavoro delle disposizioni di cui all’art.2087 c.c. e per la mancanza di un’adeguata tutela antinfortunistica.
Si costituiva in giudizio la convenuta contestando in fatto e in diritto il fondamento delle domande.
Dopo avere autorizzato il deposito di memorie sulle deduzioni istruttorie, il giudice interrogava liberamente i ricorrenti e il legale rappresentante della convenuta e ammetteva alcuni dei numerosi capitoli di prova testimoniale dedotti dalle parti. Assunte le prove, all’udienza di discussione dell’11.4.2018, il giudice decideva la causa respingendo tutte le domande proposte e compensando le spese di lite.
Avverso la sentenza del Tribunale (n.778/2018) propongono appello i ricorrenti, avanzando, e reiterando, istanze istruttorie (con particolare riferimento a produzioni documentali) e chiedendo la riforma totale o parziale della stessa e l’accoglimento delle domande già avanzate in primo grado.
Resiste l’appellata nel costituirsi, a sua volta, in questo grado di giudizio opponendosi alle istanze istruttorie avversarie e chiedendo, in via di principalità, la conferma della sentenza appellata, in via subordinata chiede di detrarre dalle spettanze eventualmente dovute, tanto per la diversa qualificazione del rapporto di lavoro quanto per il licenziamento, gli importi percepiti dagli odierni appellanti, a decorrere da ottobre 2016, per lo svolgimento di attività lavorativa di qualunque genere ovvero quanto gli odierni appellanti avrebbero potuto percepire in virtù di altra attività lavorativa nella misura che dovesse essere accertata in corso di causa e/o ritenuta di giustizia.
In ogni caso, con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente giudizio.
All’udienza dell’11.01.2019 i Difensori delle Parti hanno concordemente dato atto della rinuncia agli atti, e alla azione, avanzata da (…) (notificata dallo stesso alla appellata in data 10.12.2018 ed accettata dalla società che non si è, infatti, costituita nei suoi confronti) pertanto il Collegio ha dichiarato l’estinzione del processo nei confronti del ricorrente in questione.
Invitati i Difensori alla discussione, all’esito della stessa, la Corte ha deciso la causa come da separato dispositivo di sentenza di cui è stata data lettura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Sulla ricostruzione dei fatti di causa
Il primo Giudice, alla luce dell’istruttoria svolta, ha correttamente ricostruito le modalità con le quali i ricorrenti svolgevano la loro attività lavorativa, rilevando che:
“La prestazione lavorativa dei ricorrenti si è svolta a grandi linee nel modo seguente.
Dopo avere compilato un formulario sul sito di (…) (doc.12 ricorrenti), venivano convocati in piccoli gruppi presso l’ufficio di Torino per un primo colloquio nel quale veniva loro spiegato che l’attività presupponeva il possesso di una bicicletta e la disponibilità di uno smartphone; in un secondo momento veniva loro proposta la sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dietro versamento di una caparra di Euro 50, venivano loro consegnati i dispositivi di sicurezza (casco, maglietta, giubbotto e luci) e l’attrezzatura per il trasporto del cibo (piastra di aggancio e box).
Il contratto che veniva sottoscritto aveva le seguenti caratteristiche (risultanti dallo stesso doc.6 dei ricorrenti): – era un contratto di “collaborazione coordinata e continuativa”;
– era previsto che il lavoratore fosse “libero di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze di vita”;
– il lavoratore si impegnava ad eseguire le consegne avvalendosi di una propria bicicletta “idonea e dotata di tutti i requisiti richiesti dalla legge per la circolazione”;
– era previsto che il collaboratore avrebbe agito “in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente”, ma era tuttavia “fatto salvo il necessario coordinamento generale con l’attività della stessa committente ”
– era prevista la possibilità di recedere liberamente dal contratto, anche prima della scadenza concordata, con comunicazione scritta da inviarsi a mezzo raccomandata a/r con 30 giorni di anticipo;
– il lavoratore, una volta candidatosi per una corsa, si impegnava ad effettuare la consegna tassativamente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, pena applicazione a suo carico di una penale di 15 euro;
– il compenso era stabilito in Euro 5,60 al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali per ciascuna ora di disponibilità;
– il collaboratore doveva provvedere ad inoltrare all’INPS “domanda di iscrizione alla gestione separata di cui all’art.2,
comma 26, della legge 8 agosto 1995 n.335” e la committente doveva provvedere a versare il relativo contributo;
– la committente doveva provvedere all’iscrizione del collaboratore all’INAIL ai sensi dell’art.5 del D.Lgs., 23 febbraio 2000 n.38; il premio era a carico del collaboratore per un terzo e della committente per due terzi;
– la committente doveva affidare al collaboratore in comodato gratuito un casco da ciclista, un giubbotto e un bauletto dotato dei segni distintivi dell’azienda a fronte di un versamento di una cauzione di Euro 50.
Al contratto era allegato un foglio contenente l’informativa sul trattamento dei dati personali e la prestazione del consenso. La gestione del rapporto avveniva attraverso la piattaforma multimediale “Shyftplan” e un applicativo per smartphone (inizialmente “Urban Ninjia” e poi “Hurrier”), per il cui uso venivano fornite da (…) delle apposite istruzioni (docc.14 e 15 ricorrenti).
L’azienda pubblicava settimanalmente su Shyftplan gli “slot”, con indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno.
Ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per i vari slot in base alle proprie esigenze personali, ma non era obbligato a farlo.
Raccolte le disponibilità, il responsabile della “flotta” confermava tramite Shyftplan ai singoli riders l’assegnazione del turno.
Ricevuta la conferma del turno, il lavoratore doveva recarsi all’orario di inizio del turno in una delle tre zone di partenza predefinite (Piazza Vittorio Veneto, Piazza Carlo Felice o Piazza Bernini), attivare l’applicativo Hurrier inserendo le credenziali (user name e password) per effettuare l’accesso (login) e avviare la geolocalizzazione (GPS).
Il rider riceveva quindi sulla app la notifica dell’ordine con l’indicazione dell’indirizzo del ristorante.
Accettato l’ordine, il rider doveva recarsi con la propria bicicletta al ristorante, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite l’apposito comando della app il buon esito della verifica.
A questo punto, posizionato il cibo nel box, il rider doveva provvedere a consegnarlo al cliente, il cui indirizzo gli era stato nel frattempo comunicato tramite la app; doveva quindi confermare di avere regolarmente effettuato la consegna”.
Sulla motivazione posta dal primo Giudice a fondamento della sua decisione.
Ciò premesso, il Giudice di prime cure ha ritenuto che tali rapporti di lavoro non avessero natura subordinata alla luce delle seguenti considerazioni: 1) la volontà delle parti che avevano sottoscritto contratti di collaborazione coordinata e continuativa; 2) la circostanza che i ricorrenti non fossero obbligati a dare la propria disponibilità lavorativa per uno dei turni indicati da (…) e, a sua volta, che la convenuta potesse accettare la disponibilità data dai ricorrenti e inserirli nei turni da loro richiesti ma potesse anche non farlo (pertanto se il datore di lavoro non poteva pretendere dal lavoratore lo svolgimento della prestazione lavorativa non poteva neppure esercitare il potere direttivo e organizzativo); 3) con riferimento all’inserimento del rider in un turno (a seguito della disponibilità manifestata dallo stesso) l’istruttoria aveva dimostrato l’insussistenza dell’esercizio un potere gerarchico disciplinare da parte della società nei confronti dei ricorrenti (convenuta che non aveva mai adottato azioni disciplinari nei confronti degli attori anche se questi dopo avere dato la loro disponibilità la revocavano o non si presentavano a rendere la prestazione).
Mentre le modalità di svolgimento della prestazione e le relative indicazioni e verifiche operate dalla convenuta rientravano a pieno titolo nelle esigenze di coordinamento dettate dalla necessità di rispetto dei tempi di consegna.
Il primo Giudice ha, pertanto, respinto le domande aventi ad oggetto: la condanna al pagamento delle differenze retributive, quelle di nullità ed inefficacia del licenziamento e quelle risarcitorie in quanto presupponevano il riconoscimento della subordinazione.
Inoltre il Tribunale, nel rammentare che i ricorrenti avevano invocato in via subordinata l’applicazione della norma di cui all’articolo 2 del D.Lgs. 81/2015, ha accolto la tesi sostenuta dalla difesa dell’azienda e cioè che si trattava di una disposizione incapace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di rapporti di lavoro.
Posto che: “la norma dispone infatti che sia applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro: è quindi necessario che il lavoratore sia pur sempre sottoposto al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e non è sufficiente che tale potere si estrinsechi soltanto con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro perché deve al contrario riguardare anche i tempi e il luogo di lavoro.
Così come è stata formulata, la norma viene quindi ad avere addirittura un ambito di applicazione più ristretto di quello dell’art.2094 c.c.
Senza considerare poi il fatto che appare difficile parlare di organizzazione dei tempi di lavoro in un’ipotesi come quella oggetto di causa in cui i riders avevano la facoltà di stabilire se e quando dare la propria disponibilità ad essere inseriti nei turni di lavoro”.
Sui motivi di appello.
La difesa degli appellanti censura la sentenza di primo grado sostenendo che il Tribunale abbia dato eccessivo rilievo ai contratti di collaborazione sottoscritti dai lavoratori, senza sindacare la reale volontà delle parti che, alla luce delle risultanze istruttorie con riferimento ai concreti comportamenti posti in essere in sede precontrattuale, risulterebbe tutt’altro che unanime nel porre in essere rapporti di collaborazione autonoma. Inoltre, il Giudice di prime cure non avrebbe nemmeno considerato che non vi era piena corrispondenza tra il testo dei presunti contratti e la realtà dell’attività lavorativa svolta dai ricorrenti.
Viene ribadito che dalle prove acquisite emergerebbe la sottoposizione dei riders al potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro.
E’ criticata, infine, l’interpretazione data dal Giudice di prime cure alla disposizione del “jobs act” intesa come eccessivamente restrittiva e contraddittoria, ove la norma è ritenuta avere un ambito di applicazione più limitato di quello dell’articolo 2094 cc (spiegazione che finisce con il vanificare l’effettiva intenzione del legislatore che l’ha posta in essere).
* Sulle istanze di acquisizione documenti in appello.
Ora, prima di esaminare i motivi di impugnazione, appare necessario decidere sulle nuove istanze di produzione documenti avanzate dalla difesa degli appellanti in questo grado di giudizio. A) Viene chiesta l’acquisizione (allegato 1 in appello) della trascrizione di alcune mail e chat riguardanti gli appellanti di epoca anteriore al giudizio di primo grado (anno 2016) e del questionario INAIL relativo a un infortunio subito dal Signor (…) in data 4.9.2016 (riguardo al quale nulla era stato allegato e dedotto nel ricorso introduttivo del giudizio).
Nonché di mail contenenti bozze di contratto di assunzione full-time inviata al Sig. (…) e part-time al Sig. (…) (non firmate).
Ritiene, però, il Collegio che si tratti di produzioni tardive e comunque inammissibili ove non si sostanziano in documenti. Pertanto tale produzione non viene ammessa.
B) Viene chiesta l’acquisizione di un cd (allegato 2) contenente la registrazione di una puntata di una trasmissione televisiva (“carta bianca”) del 24.4.2018 e tale produzione è ammessa ed acquisita al fascicolo processuale in quanto successiva alla sentenza di primo grado e producibile solo in appello, riservando il Collegio ogni valutazione sulla rilevanza della stessa.
C) Viene chiesta l’acquisizione di un documento (allegato 3) tratto da un sito della appellata dal quale si evincerebbe (circostanza contestata dalla difesa della società) che (…) richiedeva almeno 20 ore di disponibilità settimanali agli aspiranti riders.
Ora, il documento in questione è sì successivo al giudizio di primo grado (è del giugno 2018) tuttavia è irrilevante posto che gli appellanti nel ricorso introduttivo del giudizio non hanno dedotto di avere lavorato mediamente 20 ore settimanali.
Le uniche deduzioni sul punto sono state fatte dalla convenuta nella sua memoria di costituzione con l’indicazione per ciascuno di essi di un orario inferiore e la stessa difesa degli appellanti, solo in sede di discussione in questo grado di giudizio, ha sostenuto (senza che vi fossero allegazioni sul punto) lo svolgimento di un monte ore lavorativo settimanale superiore a quello indicato dall’azienda ma comunque inferiore alle 20 ore settimanali asseritamente richieste dalla società.
Il Collegio decide, quindi, di non acquisirlo.
D) Viene chiesta l’acquisizione del fascicolo contenente l’attività di accertamento effettuata dall’Ispettorato del lavoro (a seguito di denuncia dei lavoratori) e di copia di un reclamo proposto dagli appellanti all’Autorità Garante della privacy, produzione che il Collegio non ritiene di acquisire alla luce del provvedimento di reiezione della opposizione alla archiviazione del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Torino del 12.07.2018, conseguente a un esposto-querela presentato contro ignoti per gli stessi fatti (asserita violazione dell’articolo 4 l. n.300/70 e violazione della normativa in materia antinfortunistica).
Sulla subordinazione.
Con riferimento alla sussistenza, o meno, del vincolo della subordinazione il Collegio non può non rilevare che i rapporti di lavoro oggetto di causa hanno avuto una durata compresa tra i sei e gli undici mesi (6 mesi (…), 7 mesi (…), 8 mesi (…) e (…) e 11 mesi (…)) con una prestazione media decisamente inferiore alle 20 ore settimanali (anche a volere accedere a quanto sostenuto, solo in sede di discussione e senza alcun riscontro, dalla difesa degli appellanti -quella della appellata aveva indicato un “range” da 7 ore settimanali a 12 ore alla luce di quanto riportato nelle buste paga- i lavoratori in questione avrebbero lavorato in media dalle 68,5 ore mensili alle 44/45 ore).
Si tratta di modalità, come evidenziato dalla difesa della società, già di per sé poco compatibili con la natura subordinata dei rapporti di lavoro in essere.
Quello che però rileva, per escludere la sussistenza della subordinazione, è la circostanza che gli appellanti erano liberi di dare, o no, la propria disponibilità per i vari turni (slot) offerti dalla azienda.
Erano loro che decidevano se, e quando, lavorare senza dovere giustificare la loro decisione e senza doversi cercare un sostituto, inoltre potevano anche non prestare servizio nei turni per i quali la loro disponibilità era stata accettata, revocando la stessa o non presentandosi (swap- funzione di revoca- e no show- mancata presentazione-).
In merito si richiama la deposizione del teste (…) (aveva svolto l’attività di rider dal febbraio 2016 al settembre dello stesso anno):
“Se uno dopo essersi prenotato per un turno, ma prima che iniziasse, voleva togliere la propria disponibilità doveva utilizzare la funzione swap inoltrando una richiesta, a quel punto bisognava aspettare una risposta che arrivava via e-mail. Non si poteva considerare cambiato il turno fino a quando non si riceveva la mail di risposta che indicava il cambio di turno. Poteva capitare che qualcuno non si presentasse, in questo caso veniva richiamato dal sistema ed eventualmente escluso dal turno”.
Non è in realtà emerso che qualcuno sia stato costretto a effettuare un turno per il quale aveva dato la disponibilità poi revocata, tramite la funzione swap o nei fatti per mancata presentazione-no show- e, come correttamente evidenziato dal primo Giudice, non è risultato che in tali casi l’azienda adottasse provvedimenti sanzionatori.
Quindi mancava il requisito della obbligatorietà della prestazione.
In merito la difesa degli appellanti ha fatto riferimento a una serie di sentenze della Suprema Corte riguardanti gli addetti al ricevimento delle giocate presso le agenzie ippiche e le sale scommesse.
In particolare è stata menzionata la sentenza n.3457 del 13.02.2018 che ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Genova che aveva ritenuto la sussistenza del vincolo della subordinazione poiché:
– in base all’attività istruttoria espletata il rapporto di lavoro in questione risultava essersi svolto proprio in base le modalità indicate dalla citata giurisprudenza, ovverosia mediante la chiamata a seconda della necessità con facoltà di aderire da parte della lavoratrice. A completamento del ragionamento, la Corte distrettuale rilevava come l’attività svolta fosse priva di autonomia organizzativa, nel senso che si inseriva in un lavoro preordinato, nelle modalità e funzioni, dalla strutturazione stessa dell’impresa dell’appellante, nel cui ambito la D., come altri, semplicemente si occupava, quando chiamata, di raccogliere le giocate e di pagare le vincite all’interno dell’agenzia ippica. Insomma, vi era stabile inserimento nell’organizzazione altrui e assolvimento di compiti essenziali, senza i quali essa non poteva funzionare, con appunto alienità di questa e ad un tempo alienità dei risultati della prestazione (aspetti decisivi e sufficienti, questi ultimi due secondo Corte cost. 5 feb. 1996 n. 30, seguita da Cass. lav. n. 820/07, per qualificare come subordinata un’attività lavorativa)…….
Nel citato arresto la Suprema Corte ha affermato che:
4.d. La predisposizione e l’assoggettamento sono la descrizione del contenuto del rapporto, nel suo materiale svolgimento. Il fatto che il lavoratore sia libero di accettare o non accettare l’offerta e di presentarsi o non presentarsi al lavoro e senza necessità di giustificazione, non attiene a questo contenuto, bensì è esterno, sul piano non solo logico bensì temporale (in quanto precede lo svolgimento). Tale fatto è idoneo solo (eventualmente) a precludere (per l’assenza di accettazione) la concreta esistenza d’un rapporto (di qualunque natura); e comporta la conseguente configurazione di rapporti instaurati volta per volta (anche giorno per giorno), in funzione del relativo effettivo svolgimento, e sulla base dell’accettazione e della prestazione data dal lavoratore. L’accettazione e la presentazione del lavoratore, espressioni del suo consenso, incidono (come elemento necessario ad ogni contratto) sulla costituzione del rapporto e sulla sua durata: non sulla forma e sul contenuto della prestazione (e pertanto sulla natura del rapporto).
4.e. Egualmente è a dirsi per la possibilità che, fin dall’inizio o nello svolgimento del rapporto, il lavoratore, con il preventivo generale consenso del datore, si faccia sostituire da altri, che gli subentra: fatto temporalmente e logicamente esterno al contenuto ed allo svolgimento della prestazione. Poiché il singolo rapporto si instaura volta per volta (anche giorno per giorno), sulla base dell’accettazione e della prestazione data dal lavoratore ed in funzione del suo effettivo svolgimento, la preventiva sostituibilità incide sull’individuazione del lavoratore quale parte del singolo specifico contingente rapporto: non esclude la personalità del rapporto stesso (che poi si instaura), e pertanto la subordinazione, la quale resta riferita a colui che del rapporto è effettivamente (pur contingentemente) soggetto (svolgendo la prestazione e percependo la retribuzione)”.
Ora, pur con la doverosa attenzione a tale autorevole pronuncia, e però considerando che quando si deve analizzare una sentenza non si può che fare riferimento al contesto in cui si è realizzata la prestazione lavorativa oggetto di causa (che era quello delle agenzie ippiche e non del lavoro nelle piattaforme digitali, come nel nostro caso), non ritiene questo Collegio di potere condividere la sentenza nella parte in cui afferma che la libertà di presentarsi o meno a rendere la prestazione (senza dovere fornire giustificazioni in merito) possa configurarsi come elemento “esterno al contenuto del rapporto”.
Non solo la modalità di svolgimento della prestazione ma anche l’obbligo di lavorare sono requisiti di fattispecie nell’articolo 2094 cc.
Il contenuto dell’obbligazione gravante sul dipendente è testualmente definito dall’articolo 2094 cc come prestazione del proprio lavoro, sicché il predetto obbligo entra a far parte del contratto.
Si rammenta che sempre la Suprema Corte, in altra sentenza che pure aveva esaminato la giurisprudenza della Cassazione che all’epoca si era formata con riferimento agli addetti delle sale scommesse (da ultimo confermata nel sopracitato arresto) aveva nondimeno affermato che:
“Ai fini della distinzione fra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo, assume comunque valore determinante – anche a voler accedere ad una nozione più ampia della subordinazione, con riferimento a sistemi di organizzazione del lavoro improntati alla “esteriorizzazione” di interi cicli del settore produttivo – l’accertamento della avvenuta assunzione, da parte del lavoratore, dell’obbligo contrattuale di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative e di impiegarle con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la produzione, per il perseguimento dei fini propri dell’impresa datrice di lavoro (nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva escluso la subordinazione in relazione ad una lavoratrice che, facendo parte di un gruppo di giovani che prestavano di sera la propria attività di camerieri presso un ristorante, veniva indirizzata presso l’esercizio secondo turni giornalieri e settimanali organizzati dalla stessa lavoratrice secondo accordi con il suo gruppo, a seconda delle proprie esigenze, senza obbligatorietà della prestazione). (Sez. L, Sentenza n. 2842 del 26/02/2002, Rv. 552597 -01).
E’ innegabile che, a seguito della stipula del contratto di lavoro, in capo al lavoratore sorge l’obbligazione principale di eseguire la prestazione lavorativa, sottostando, entro i limiti sanciti dalla legge e dai contratti collettivi, al potere direttivo e al potere disciplinare del datore di lavoro.
Nel caso di specie l’appellata poteva disporre della prestazione lavorativa degli appellanti solo se questi decidevano di candidarsi a svolgere l’attività nelle fasce orarie (slot) stabilite.
E’ vero che si trattava di slot predeterminati dalla società ma è anche vero che la stessa non aveva il potere di imporre ai riders di lavorare nei turni in questione o di non revocare la disponibilità data, a dimostrazione della insussistenza del vincolo della subordinazione.
Alla luce di quanto sopra sottolineato assume allora rilevanza (anche se non decisiva ma comunque rafforzativa circa la valutazione autonoma dei rapporti di lavoro oggetto di causa) il nomen juris concordemente adoperato dalle parti in sede di conclusione dell’accordo, proprio ai fini della qualificazione del rapporto medesimo.
Pertanto la domanda principale dei ricorrenti/odierni appellanti deve essere respinta.
Sull’applicazione dell’articolo 2 del D.Lgs. 81/2015.
Non ritiene, invece, il Collegio di condividere quanto affermato dal Tribunale in relazione alla invocata (in via subordinata) applicazione della norma di cui all’articolo 2 del D.Lgs. 81/2015 secondo cui:
“A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Ritenere, infatti, che una norma di legge non abbia un contenuto precettivo (come pur affermato da autorevole dottrina, tra cui
spicca la difesa della appellata) è una valutazione che si comprende in ambito scientifico ma è preclusa ad un Organo giudicante il quale è tenuto ad applicare le leggi dello Stato in vigore, anche se si tratta di una norma di non facile interpretazione stante il sottile confine tra il dettato della stessa e il disposto dell’articolo 2094 cc.
Compito del Giudice è quindi quello di interpretare la norma, delinearne l’ambito di applicazione (il perimetro) e verificare se la fattispecie concreta (oggetto di causa) rientri nella previsione della stessa.
Secondo il Collegio la norma in questione individua un terzo genere, che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 cc e la collaborazione come prevista dall’articolo 409 n.3 c.p.c., evidentemente per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito della evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle recenti tecnologie, si stanno sviluppando.
Postula un concetto di etero-organizzazione in capo al committente che viene così ad avere il potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa del collaboratore e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro.
Pur senza “sconfinare” nell’esercizio del potere gerarchico, disciplinare (che è alla base della eterodirezione) la collaborazione è qualificabile come etero-organizzata quando è ravvisabile un’effettiva integrazione funzionale del lavoratore nella organizzazione produttiva del committente, in modo tale che la prestazione lavorativa finisce con l’essere strutturalmente legata a questa (l’organizzazione) e si pone come un qualcosa che va oltre alla semplice coordinazione di cui all’articolo 409 n.3 c.p.c., poiché qui è il committente che determina le modalità della attività lavorativa svolta dal collaboratore.
Abbiamo così l’esercizio del potere gerarchico-disciplinare-direttivo che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato ex art 2094 cc (in cui il prestatore è comunque tenuto all’obbedienza), l’etero-organizzazione produttiva del committente che ha le caratteristiche sopra indicate (e rientra nella previsione di cui all’articolo 2 del D.Lgs. 81/2015) e la collaborazione coordinata ex art. 409 n.3 c.p.c. in cui è il collaboratore che pur coordinandosi con il committente organizza autonomamente la propria attività lavorativa (in questo caso le modalità di coordinamento sono definite consensualmente e quelle di esecuzione della prestazione autonomamente).
Altro aspetto importante, per stabilire se al caso concreto è applicabile la norma in questione, è quello di accertare se la prestazione lavorativa ha il carattere della “continuatività”.
Carattere che, ritiene il Collegio, deve essere valutato in senso ampio tenuto conto della funzione di tutela della norma e della peculiarità (e continua evoluzione) dei rapporti di lavoro che è chiamata a disciplinare.
Va quindi intesa da un lato come non occasionalità e dall’altro, riguardo alla esecuzione della prestazione, come svolgimento di attività che vengono (anche se intervallate) reiterate nel tempo al fine di soddisfare i bisogni delle parti.
Alla luce di quanto sopra, tenuto conto delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa dei ricorrenti come descritte, ritiene il Collegio che la domanda avanzata dagli stessi in via subordinata debba essere accolta.
Gli appellanti, infatti, lavoravano sulla base di una “turnistica” stabilita dalla appellata, erano determinate dalla committente le zone di partenza, venivano comunicati loro tramite app gli indirizzi cui di volta in volta effettuare la consegna (con relativa conferma), i tempi di consegna erano predeterminati (30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo).
Indubbiamente le modalità di esecuzione erano organizzate dalla committente quanto ai tempi e ai luoghi di lavoro.
Inoltre gli appellanti avevano sottoscritto dei contratti di collaborazione nei quali era prevista una durata di alcuni mesi e avevano svolto attività per la società appellata in via continuativa per quasi tutte le settimane in tale arco temporale.
Ritiene, infine, questa Corte che l’applicazione dell’articolo 2 D.Lgs. 81/2015 non comporti la costituzione di una rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra le parti, come chiesto dalla Difesa degli appellanti.
La norma stabilisce solo che a far data dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione autonoma etero-organizzata (in essere), che però continuano a mantenere la loro natura.
Ciò significa che il lavoratore etero-organizzato resta, tecnicamente, “autonomo” ma per ogni altro aspetto, e in particolare per quel che riguarda sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza, il rapporto è regolato nello stesso modo.
Viene, pertanto, fatto salvo l’assetto negoziale stabilito dalle parti in sede di stipulazione del contratto con l’estensione delle tutele previste per i rapporti di lavoro subordinato.
Quindi, entro tali limiti, deve essere accolta la domanda degli appellanti volta al riconoscimento del loro diritto a ottenere il trattamento retributivo dei lavoratori dipendenti ma solo riguardo ai giorni e alle ore di lavoro effettivamente prestate.
Non essendo l’appellata iscritta ad alcuna associazione imprenditoriale che abbia sottoscritto contratti collettivi, ritiene il Collegio (riguardo all’attività e alle mansioni svolte dai ricorrenti) che debba essere riconosciuta loro (ex art 36 Cost) la retribuzione diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti del V livello del CCNL logistica-trasporto-merci.
In tale livello sono, infatti, inquadrati i fattorini addetti alla presa e alla consegna.
La società appellata dovrà, così, essere condannata a pagare a ciascuno degli appellanti quanto dovuto in relazione ai giorni e alle ore di attività lavorativa effettivamente prestata dai medesimi, dedotto quanto da loro già percepito (sul punto, nelle conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio, è stata richiesta solo la condanna generica).
Sui licenziamenti
La domanda deve essere respinta posto che non vi è riconoscimento della subordinazione.
Inoltre i contratti di collaborazione prorogati fino al 30.11.2016 non sono stati rinnovati alla scadenza.
L’appellata ha offerto ai riders con contratto in scadenza a novembre 2016 (tra cui gli odierni appellanti) la prosecuzione del rapporto con modalità diverse (retribuzione a cottimo). Si vedano gli allegati 9-10 alla memoria di costituzione della convenuta nel primo grado di giudizio, comunicazioni con le quali si invitano i ricorrenti a partecipare ad un incontro in data 2.11.2016 in cui sarebbero state loro illustrate loro le nuove proposte contrattuali.
Non vi è stata pertanto una interruzione, da parte della società, dei rapporti di lavoro in essere prima della loro scadenza naturale.
Sul risarcimento del danno per violazione dell’articolo 2087 cc.
Nel caso di specie si deve evidenziare che, a prescindere dall’ambito di applicazione dell’articolo 2087 cc, gli odierni appellanti non imputano alla appellata alcun danno patrimoniale derivante dalla violazione di tale norma (e di norme antinfortunistiche specifiche) e chiedono il ristoro di un danno non patrimoniale non meglio precisato (lo stesso (…) solo in sede di appello ha dedotto tardivamente l’esistenza di un infortunio senza muovere, nel ricorso presentato in questa fase di giudizio, alcun specifico rilievo alla società).
Ora, si rammenta che la Suprema Corte ha affermato che:
Possono essere risarcite plurime voci di danno non patrimoniale, purché allegate e provate nella loro specificità, purché si pervenga ad una ragionevole mediazione tra l’esigenza di non moltiplicare in via automatica le voci risarcitone in presenza di lesioni all’integrità psico-fisica della persona con tratti unitari suscettibili di essere globalmente considerati, e quella di valutare l’incidenza dell’atto lesivo su aspetti particolari che attengono alla personalità del danneggiato. (Sez. 1 -, Ordinanza n. 13992 del 31/05/2018, Rv. 649164 – 01).
La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, come predicata dalle sezioni unite della S.C., deve essere interpretata, rispettivamente, nel senso di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica e come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, procedendo ad un accertamento concreto e non astratto, dando ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni. (Sez. 3 – , Sentenza n. 901 del 17/01/2018, Rv. 647125 – 01)
Il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, quale il diritto alla libera manifestazione del pensiero, non può mai ritenersi “in re ipsa”, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici. (Fattispecie in tema di danno non patrimoniale lamentato da un rappresentante sindacale aziendale, che era stato sanzionato illegittimamente per aver offeso l’onore del datore di lavoro denunciando, nei limiti della verità oggettiva, irregolarità negli appalti, e che aveva allegato genericamente di aver subito discredito nell’ambiente di lavoro e sociale, a causa dell’irrogazione della sanzione disciplinare, poi annullata dal giudice). (Sez. L, Sentenza n. 7471 del 14/05/2012, Rv. 622793 – 01).
Orientamento oramai uniforme scaturente da Cass. SU 26972/2008.
La relativa domanda deve, pertanto, essere respinta.
Sul risarcimento del danno per violazione della normativa in materia di privacy e sui controlli a distanza.
Anche con riferimento a tale domanda il Collegio non può che rilevare come i ricorrenti (odierni appellanti) non abbiano dedotto né provato di avere subito un danno dall’asserito illegittimo utilizzo dei dati personali, limitandosi a chiedere un risarcimento di Euro 20.000,00 per ciascuno senza nemmeno indicare (come correttamente evidenziato dal Giudice di prime cure) alcun parametro utile alla quantificazione del danno subito. Tra l’altro tale ultimo passaggio motivazionale della appellata sentenza non risulta essere oggetto di alcuna specifica doglianza nei motivi di impugnazione.
Ora, la Suprema Corte in merito ha ritenuto che:
In tema di risarcimento del danno non patrimoniale per violazione dell’art. 15 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. codice della privacy), è ammissibile la prova per testimoni di tale danno, in quanto esso non può ritenersi “in re ipsa”, ma va allegato e provato, sia pure attraverso il ricorso a presunzioni semplici, e, quindi, a maggior ragione, tramite testimonianze, che attestino uno stato di sofferenza fisica o psichica. (nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che non aveva ammesso la testimonianza circa la sofferenza psicologica di un soggetto, dovuta alla comunicazione di dati afferenti la sua appartenenza sindacale). (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 22100 del 26/09/2013, Rv. 627948 – 01).
Non decisiva è pertanto l’ordinanza della Suprema Corte n.14242 del 4/6/2018 (invocata dalla difesa degli appellanti) che aveva respinto il ricorso della Agenzia delle Dogane che era stata condannata al risarcimento del danno in favore di un suo dipendente il quale era stato oggetto di un provvedimento di trasferimento, a seguito di una indagine avviata dalla locale Procura della Repubblica, poiché nella stessa determina si dava atto della vicenda ed era stata comunicata utilizzando un protocollo ordinario e rendendo quindi la vicenda di pubblico dominio.
In tale pronuncia la Suprema Corte aveva affermato che: 1) spetta al giudice valutare, sulla base delle allegazioni del danneggiato e di presunzioni semplici (tenendo anche conto dell’eventuale prova contraria fornita dal danneggiante) se il danno debba essere risarcito in quanto lesivo di diritti la cui violazione non debba e non possa essere tollerata dal danneggiato; 2) una volta ritenuto che il bene violato faccia parte di valori fondamentali, ovvero dei diritti inviolabili della persona, il Giudice deve disporre che il danno debba essere risarcito quantomeno in via equitativa, salvo la prova contraria dedotta dal danneggiante.
Però in quel caso (come evidenziato dalla Cassazione) dalla sentenza impugnata si evinceva provata l’illecita lesione del diritto alla riservatezza del ricorrente mediante la diffusione di dati giudiziari inerenti alla sua persona, il giudicante aveva così ritenuto, ricorrendo a presunzioni semplici, che tale condotta avesse causato nel dipendente un forte senso di turbamento e di vergogna.
A dimostrazione che un danno, per essere risarcito in sede civile, deve essere allegato e provato, cosa che nel nostro caso non è avvenuta.
Identiche considerazioni vanno fatte riguardo alla denunciata violazione della normativa sui controlli a distanza, con particolare riferimento alla geo-localizzazione tramite gli smartphone, posto che difetta qualsiasi allegazione sulla sussistenza e l’entità di un pregiudizio (non dimostrabile alla luce di quanto dedotto nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio).
In conclusione.
L’appello merita quindi di essere accolto in misura parziale, nel senso che deve essere accertato e dichiarato che (ex art 2.dlgs 81/2015) gli appellanti hanno il diritto di vedersi corrispondere quanto maturato in relazione alla attività lavorativa da loro effettivamente prestata in favore dell’appellata sulla base della retribuzione, diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti del V livello CCNL logistica trasporto merci, dedotto quanto percepito.
Inoltre l’appellata deve essere condannata a pagare a ciascun appellante il dovuto in conformità a quanto sopra deciso oltre interessi e rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo.
Le restanti domande avanzate dagli appellanti devono, invece, essere respinte con conseguente assoluzione dalle stesse della appellata.
Ritiene il Collegio, in relazione all’esito della causa, di compensare nella misura di due terzi le spese di entrambi i gradi di giudizio, la restante parte, liquidata come da dispositivo, deve essere posta a carico della appellata parzialmente soccombente.
P.Q.M.
Visto l’art. 437 c.p.c.,
In parziale accoglimento dell’appello,
1) accerta e dichiara ex art 2.dlgs 81/2015 il diritto degli appellanti a vedersi corrispondere quanto maturato in relazione alla attività lavorativa da loro effettivamente prestata in favore dell’appellata sulla base della retribuzione, diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti del V livello CCNL logistica trasporto merci, dedotto quanto percepito;
2) condanna l’appellata a pagare a ciascun appellante quanto dovuto in base al capo 1) oltre interessi e rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo;
3) condanna l’appellata a rimborsare agli appellanti un terzo delle spese di lite che vengono liquidate per l’intero in Euro 15.840,00 per il primo grado e per il presente in Euro 10.400,00 il tutto oltre IVA CPA e rimborso forfettario compensati i restanti due terzi, con distrazione in favore dei Difensori.
Così deciso all’udienza del 11 gennaio 2019.
Depositata in Cancelleria il 4 febbraio 2019.
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